lunedì 4 giugno 2018

FACCIAMO BASTA DI CONDANNARE LA SCHIAVITÙ … PER POI OSANNARE IL LAVORO SALARIATO! (Newsletter Nr. 60)

Dante Lepore, 04/06/2018
Auto recensione al saggio di Dante Lepore, Schiavitù del terzo millennio, PonSinMor, Torino, 2107, pp. 400, € 15. 

«Le società primitive a suo parere [di Karl Marx] non generavano sfruttamento poiché i soggetti economici scambiavano prodotti che incorporavano all’incirca quantità equivalenti di lavoro. Nella schiavitù lo sfruttamento era in realtà minore di quanto non sembrasse perché, anche se il lavoro non era pagato, l’autoconsumo degli schiavi permetteva loro di recuperare una parte del proprio lavoro. Il feudalesimo era apertamente un sistema di sfruttamento, perché la quantità di lavoro svolto dai lavoratori per sé stessi e per i loro padroni feudali era chiaramente stipulata e visibile; mentre nel capitalismo sembrava che lo sfruttamento non ci fosse affatto, dal momento che tutto il lavoro era pagato con un salario, ma in realtà i lavoratori eseguivano più lavoro di quanto non fosse incorporato nei loro mezzi di consumo, e così c’era un surplus di lavoro non pagato che veniva appropriato dai capitalisti».  [1]


1. Una misconosciuta relazione tra schiavitù e sfruttamento

Chi afferma, in modo così (apparentemente) paradossale, quanto su riportato in epigrafe (in cui il corsivo è nostro), nell’ambiguo intento di tessere un elogio, ormai rituale, di Karl Marx in occasione del bicentenario della nascita, è Domenico (Mario) Nuti, professore Emerito di Sistemi Economici Comparati alla Facoltà di Economia, Sapienza, dell’Università di Roma. L’affermazione di Nuti, fatto salvo il dettaglio della pressoché impossibile compararabilità quantitativa di una condizione storicamente generalizzata fondata sul lavoro astratto alienabile e di economia del valore di scambio con una come quella schiavile ancora a prevalente autoconsumo e in cui le merci erano richieste esclusivamente per il loro valore d’uso, mostra un dato di fatto che si adatta, almeno in parte, come possibile sintesi più concisa del filo conduttore della mia ricerca sulle modalità di sfruttamento nelle varie forme di lavoro relative ai sistemi economici che si sono sviluppati nel corso della storia dell’umanità divisa in inconciliabili antagonismi di classi.

Nelle formazioni economico-sociali non ancora capitalistiche, in cui erano prevalentemente gli schiavi a svolgere le attività produttive agricole, manifatturiere sia private che pubbliche e dei servizi (persino di ordine pubblico), gli schiavi erano semplicemente merci acquistate o provenienti da popolazioni sottomesse militarmente e vendute come strumenti di lavoro per il rispettivo «valore d’uso» riferito alla qualità di fornire un lavoro «utile», dalla coltivazione dei campi al lavoro nelle miniere alla costruzione di strade alla navigazione ecc.

Con la comparsa e il predominio del capitalismo sulla base di un’economia mercantile, non importano più tanto i differenti lavori utili come valori d’uso fra loro qualitativamente diversi (fabbri, carpentieri, muratori, tessitori, ecc.) quanto il lavoro astrattamente generale puro e semplice, quello «uguale» in tutti i lavori indistintamente e che, come una gelatina condensata (espressione di Marx), è incorporato, in quantità diverse, nelle diverse merci e fornisce loro valore, il valore di scambio puramente quantitativo, calcolabile nell’unica misura quantitativa del lavoro, che è il tempo. Non importa più come lavori o cosa fai ma per quanto tempo lavori. Se si fabbricano vestiti o armi di distruzione poco importa a chi paga la forza lavoro con salario con l’unico scopo di valorizzarne il capitale impiegato. Ed essendo il profitto il movente del valore di scambio, questo tende a soverchiare il valore d’uso: una merce la si produce solo se rende in termini di plusprodotto da trasformare in profitto, altrimenti non la si produce per quanto utile e persino necessaria possa essere.

Lo schiavo non serve più, perché diventa antieconomico. Non è per generosità e senso di umanità che chi possiede i mezzi di produzione e di lavoro sceglie il lavoro a corvée feudale o decisamente mercificato: non serve più possedere lo schiavo, costa meno comprare la sua forza lavoro vendendogli la libertà di disporre della capacità di lavorare come merce che possiede il valore d’uso di erogare, lavorando, un prezioso valore di scambio. Il lavoro diventa così più produttivo e meno caro dello schiavo divenuto sempre più costoso, di difficile manutenzione e più raro, più docile e persino coinvolto in quanto più responsabile e migliore dello schiavo per l’illusione che il lavoratore riceve di essere «libero» anche se espropriato rispetto al soggetto, pubblico o privato, che compra a tempo la sua capacità di lavorare. Schiavo e salariato come in parte il servo della gleba, sono identici nella funzione di cedere il loro tempo di vita ad un altro, nella forma di costrizione proprietaria extra economica per lo schiavo, e di ricatto economico per il salariato: se non lavori non mangi! Il ricatto della morte (per fame o per decreto) è sostanzialmente presente sia allo schiavo che al lavoratore salariato. Come per il sorcio di Trilussa, «la tinta [del gatto cui finirà in bocca] cambia ma la fine è quella». E, peraltro, se agli schiavi capitava di morire sul lavoro, oggi capita sempre più di morire di lavoro.

Al punto in cui si sono evolute le relazioni di lavoro come rapporto tra l’uomo e la natura nel nostro mondo capitalistico affetto dalla cosiddetta globalizzazione, diventa sempre più nauseante e insopportabile l’ipocrisia di coloro che prospettano la schiavitù come limite e male assoluto confinato ad un passato miticamente evocato come finalmente superato, senza accorgersi di star facendo l’apologia di un sistema sociale ed economico che ha largamente soverchiato la schiavitù antica in fatto di nocività per la specie umana tutta e per la natura. L’apologia di questo sistema ricattatorio e mortifero porta a difendere e invocare il lavoro (anche il più odioso e schifoso) come «diritto», anche quando occorrerebbe abolire certi lavori nocivi per l’uomo e l’ambiente come all’ILVA di Taranto, ai cantieri del mesotelioma, ecc. Un lavoro peraltro senza futuro e possibilità di emancipazione; e anche da questo lato è illegittimo il confronto con la schiavitù antica dove poteva capitare che lo schiavo arrivasse ad «emanciparsi» in varie forme comprando, sia pure a caro prezzo, la libertà col risparmio dell’obolo, col «peculio», un gruzzolo che poteva persino prestare al padrone. E si davano casi di schiavi arricchiti più ricchi dei padroni.

Il libro La schiavitù del terzo millennio documenta l’infondatezza di questo paradossale confronto con la schiavitù intesa come male assoluto e denuncia proprio questa caratteristica della corrente schiavitù come asservimento generalizzato ad un sistema mortifero e autodistruttivo come mai prima. Perché, si badi bene, a morire non sono solo i lavoratori, ma tutto il resto della natura: dai pesci ai volatili ad un’infinità di altre specie viventi. Il limite dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo e sulla natura è stato largamente superato dal capitalismo divenuto, nell’epoca delle megalopoli, largamente anti ecologico.[2] Di lavoro, sia esso contrattualizzato che non, sia esso tipico che a-tipico, regolare o non, grigio o nero, oggi si muore perché gli omicidi sul lavoro non si contano più e le statistiche s’impennano come impazzite: si muore sia per troppo lavoro che per mancanza di lavoro, per disperazione da suicidio, per spossatezza, per stress, per fatica e banale distrazione, per condizioni ambientali definite “indecenti”, per usura, gasati, affogati, bruciati, schiacciati, maciullati, per aver contratto tumori, per polveri sottili, uranio impoverito in guerra, amianto, ed una miriade di malattie cosi dette professionali, per assenza o elusione di elementari norme di sicurezza, senza contare i cosiddetti incidenti in itinere. E si muore per gioco, persino i bambini si divertono ad ammazzarsi. Si muore indifferentemente dall’età, di fame, di consunzione, di freddo e di caldo, di inadeguatezza dei salari a coprire i costi del mantenimento in vita, si riduce il tempo di vita e con ciò stesso la vita per trasformarla in lavoro, si sfruttano bambini per lavoro nelle miniere, nelle tessiture, nelle fornaci o nei bordelli e come soldati in guerra, si usa il corpo umano, che ormai vale più a pezzi che intero, per la compravendita degli organi. Eppure…si continua a chiamare questo lavoro «libero» e a contrapporlo ad una sempre evocativa, mitizzata e mistificata schiavitù. Nell’epoca della schiavitù antica, quanto meno in Grecia, la legge, difendeva gli schiavi contro l’uccisione arbitraria da parte di padroni un po’ troppo pretensiosi.

Un’importante acquisizione di questa indagine costituisce altresì una verifica del carattere dialettico della concezione della storia in Marx, centrata, contro ogni visione superficialmente gradualistica, sulla comparsa del «nuovo» nella storia, in special modo nelle transizioni. Ne emerge infatti  la proposta di osservare le varie forme di rapporti di produzione e di lavoro e i loro cambiamenti non come un susseguirsi lineare di astrazioni predeterminate, come fossero niente altro che «cose» pietrificate, ma come «processi» non necessariamente cumulativi ascendenti e progressivi. Soprattutto non bisogna mai dimenticare che tali transizioni non sono automatiche ma sono opera degli uomini. Non esistono transizioni o mutamenti o passaggi come gradualistici «progressi» disposti come gradini in successione o come accumuli di elementi, ma transizioni attraverso le quali, nel sistema giuridico di schiavitù considerato in quello che viene comunemente additato come modo di produzione schiavistico o anche sistema schiavista, oltre al convivere della schiavitù con altre forme spesso ibride e rapporti di lavoro differenti, esistono ragioni di pura convenienza economica e non d’altra natura, etica o religiosa, che motivano la scelta per la schiavitù rispetto ad altre forme di sfruttamento a fini individuali (e non sociali) come il lavoro salariato (che del resto era compresente già nell’antichità anche se non in forma dominante).

Come afferma il professor Nuti, può accadere che «lo sfruttamento era in realtà minore di quanto non sembrasse», e tale affermazione (fatti i relativi distinguo sulla incomparabilità in termini di valore quantitativo) appare qui persino estremizzata rispetto all’assunto, più complesso, di Marx e di quanto vengo sostenendo nel mio lavoro, al punto da risultare di fatto un vero e proprio, raro, elogio della schiavitù, se solo si introduce un inevitabile raffronto rispetto allo sfruttamento capitalistico, al cospetto del corale dispregio della schiavitù come del male assoluto, così come viene comunemente e superficialmente inteso nell’opinione corrente.

2. Tanto erano preziosi gli schiavi antichi, quanto sono «usa e getta» quelli di oggi

Ho cominciato a scrivere questo libro sulla schiavitù antica al confronto con quella corrente alcuni anni fa, raccogliendo materiale e fonti su come essa è nata a seguito della dissoluzione delle comunità primitive e al contempo registrando casi attuali di sfruttamento al di fuori di ogni immaginazione, definizione giuridica o classificazione convenzionale. Ho scoperto che nell’antichità era assente la consapevolezza che la figura dello schiavo corrispondeva al male assoluto, ma esso era percepito solo come una specie diversa di umanità, non destinata a comandare, ma a eseguire, e per converso spesso l’essere schiavi costituiva una condizione privilegiata rispetto ai liberi…ma poveri! Lo stesso termine latino «servus» rinviava alla condizione, per lo più di prigionieri di guerra, stranieri, non appartenenti alla comunità, «salvati» (da servari, donde «servi»), quando non di schiavi per debito, condizione che oggi permane come asservimento all’usura e strozzinaggio anche delle banche e del banco dei pegni. Le classi dominanti consideravano, peraltro, assai prezioso il lavoro dello schiavo, al punto che nel Trecento e poi nelle tratte verso le Americhe e i Caraibi, l’assicurazione sulla vita nacque proprio per garantirsi dalla perdita dello schiavo nei trasporti per mare o delle schiave per morte di parto o altro. Essendo acquistato come strumento, i padroni compravano lo schiavo tutto in una volta, non potendolo fare a rate e, a tal fine, raccomandavano che questo «strumento di lavoro parlante» fosse mantenuto degnamente e persino rispettato. Colpisce l’attualità sia della diagnosi che delle raccomandazioni di Platone:

Tutti notoriamente diciamo che gli schiavi devono essere quanto più è possibile affezionati e pieni di buone qualità; difatti certuni hanno già avuto molti schiavi che si sono mostrati migliori sotto tutti gli aspetti dei fratelli e dei figli, ed hanno salvato i padroni, i loro beni e tutta la loro casa. Sappiamo bene che si fanno di questi discorsi agli schiavi […] Ma non si dice forse anche il contrario, che, cioè, nulla di sano vi è nell’anima di uno schiavo, e che l’uomo sennato non deve mai fidarsi in nulla di questa classe? Il più saggio dei nostri poeti [Omero] parlando di Giove dice che «l’ampio veggente Giove metà della mente sottrae agli uomini sui quali il dì del servaggio è piombato». Orbene , diversamente giudicando di queste opposte opinioni, gli uni non si fidano affatto degli schiavi, e trattandoli come fossero bestie, col pungolo e con lo staffile, ne rendono le anime non tre, ma 100 volte serve; gli altri invece fanno tutto il contrario di questo […] È chiaro che l’uomo, siccome è un animale difficile a trattare, non vuole affatto prestarsi a quella distinzione , per cui di fatto si riconosce lo schiavo, il libero, il padrone. […] e per questo è un possesso imbarazzante. Difatti l’esperienza lo ha più volte dimostrato con le frequenti abituali rivolte degli Esseni, con tutti i mali che sogliono capitare agli stati, dove si trovano persone che possiedono molti schiavi d’una medesima lingua, e ancora con le rapine e le violenze d’ogni genere che i cosiddetti vagabondi commettono in Italia. Riflettendo a tutto questo, si diviene incerti su quel che convenga fare relativamente a tutta questa faccenda. Non rimangono che due espedienti: l’uno, di tenere schiavi che non siano connazionali, ma quanto più è possibile di diversa lingua; così si presteranno più facilmente a servire; l’altro di trattarli bene, non soltanto per loro, ma ancor più per il nostro interesse; e il buon trattamento consiste nel non trascendere ad alcuna insolenza verso gli schiavi e nell’essere, se possibile, meno ingiusti con essi che con i propri pari. In verità, se uno ama sinceramente e non per finzione la giustizia e odia realmente l’ingiustizia, chiaramente si vede dal suo modo di comportarsi verso coloro sui quali può facilmente commettere ingiustizie. […] D’altra parte bisogna certamente punir gli schiavi come si deve, non già ammonirli semplicemente, come se fossero liberi, e renderli così molli e fiacchi. La parola rivolta allo schiavo deve essere su per giù sempre un comando, e non bisogna scherzare mai per nulla con essi, siano maschi o femmine ; ché molti , prendendosi inconsideratamente di tali divertimenti cogli schiavi, finiscono col rendere più penosa ad essi la vita nel servire e a sé nel comandare. [3]

D’altra parte gli antichi padroni non avevano ancora l’esigenza di magnificare il lavoro salariato specie dei lavoratori manuali o di contrapporlo come il migliore dei mondi possibile rispetto alla schiavitù, come dimostra Cicerone:

«Indegno dell’uomo libero e di infima bassezza va considerato il guadagno di tutti i lavoratori salariati, per i quali è pagata la fatica fisica, e non l’ingegno: in questi casi il salario è la ricompensa per l’acquisizione di uno stato di schiavitù» [4]

3. Lavoro salariato e schiavitù: due forme di sfruttamento del lavoro umano.

Nei rapporti capitalistici, attraverso la mediazione del salario e del contratto, lo sfruttamento, sia pur mascherato dalle apparenze di “libertà”, avviene nella forma di tempo di lavoro che erode il tempo di vita spremendolo fino a farlo diventare integralmente tempo di lavoro. Nella formazione economico-sociale in cui prevale la schiavitù rispetto ad altre forme, anche miste di lavoro autonomo e schiavile, tutto il lavoro degli schiavi è lavoro per il padrone, il quale tuttavia garantisce il soddisfacimento dei bisogni essenziali dei suoi schiavi. Quando non ne ha bisogno, li cede in affitto ad altri padroni. Da alcuni anni, come accennavo, è dato di rilevare anche nella letteratura sociologica accademica, sempre più frequentemente, un accostamento o, per meglio dire, una contrapposizione tra schiavitù e lavoro salariato, anche se con sfumature e intenti diversi, ma che alla fine cospirano tutti ad una, a volte palese a volte nascosta, affermazione del lavoro salariato come la forma più «dignitosa», «libera», «civile», esente da sfruttamento, quanto meno da «sfruttamento eccessivo» o appunto «schiavistico». Una visione del lavoro «contrattualizzato» come del migliore in assoluto dei mondi possibile per quanto concerne il lavoro umano. Un esempio tra i più recenti è il, peraltro, bel saggio, dal punto di vista della denuncia appassionata delle condizioni di lavoro per ciò che riguarda l’Ita-lia, della ricercatrice Marta Fana, la quale, pur consapevole di stare descrivendolo non nella metafisica dell’iperuranio ma nel mondo capitalistico alle soglie del terzo millennio, titola un suo libro, guarda caso, Non è lavoro, è sfruttamento[5], come se fosse possibile, qui ed ora, in tali condizioni, che il lavoro fosse, non come è, reale (e ineludibile), ma opzionale, sfruttamento: «È un sistema che tuttavia si ripercuote sulle condizioni di lavoro dove, nella migliore delle ipotesi, vengono negati solo i contratti collettivi nazionali, mentre sempre più di frequente l’intera organizzazione del lavoro rasenta la schiavitù»[6], espressione frequentissima non solo nei sociologhi (tipica quella di Carchedi, che parla di «para schiavismo» e «schiavitù di ritorno»[7]), ma anche nelle rivendicazioni sindacali. Altra frequente espressione è quella di «nuovi schiavi».[8] È chiaro che in questa ottica, al di la dell’ipocrisia che tenta da decenni di eludere o di occultare l’esistenza di lavoro schiavista anche di vecchio stampo, traspare la mentalità giuridica del capitalismo per cui «è a rischio di essere considerato in sostanza schiavitù più o meno qualsiasi rapporto di lavoro esuli dallo schema del contratto di impiego in un’azienda capitalistica a fronte di un salario». [9]

4. L’ideologia dominante accetta lo sfruttamento e l’ineguaglianza… ma non la schiavitù

Il guaio è che, con tali premesse, come si vede, non si può approdare ad altro che alla già nota ideologia sociale della schiavitù come misura quantitativa, peraltro a-storica e universale, dello sfruttamento, e del salario come, anch’esso, misura della «giusta mercede», che, come è noto ai più, risale alla enciclica ottocentesca Rerum Novarum di papa Leone XIII (15 maggio 1891), ed è la più diffusa e radicata nei cervelli di tutti i sindacalisti, cattolici e sedicenti marxisti. Il moralmente «giusto salario» del papa è ora altresì il contenuto della laica «dignità». Ma quanto meno Leone XIII non nascondeva la «necessità delle ineguaglianze sociali e del lavoro faticoso» e che «togliere dal mondo le disparità sociali è cosa impossibile».

Ci ammonisce infatti ancora Marta Fana: «La retribuzione e il diritto a un salario dignitoso non sono un regalo, una concessione da elargire ai lavoratori se si comportano come chiede il padrone, ma il sacrosanto diritto materiale al processo di vendita della forza produttiva da parte dei lavoratori stessi»[10], e invece si eccede sempre più rispetto quella misura «sacrosanta» o condizione accettabile di salario dignitoso, e «si scava a fondo, raschiando fino all’annientamento della dignità umana».[11] Dunque, per Marta Fana, a rigor di logica, un salario «dignitoso» è «sacrosanto» e non è sfruttamento.

La tesi che illustro nel libro Schiavitù del terzo millennio è che il capitalismo, la cui genesi, il presupposto originario e al tempo stesso la condizione, sta nell’accumulazione, nell’espropriazione, nella rapina e saccheggio territoriale coloniale e umano, con conseguente sviluppo di diseguaglianze nei rapporti umani e sociali. Di conseguenza il capitalismo è organico e strutturale con la diseguaglianza e con lo sfruttamento, ma nel rapporto capitalistico si camuffa poi lo sfruttamento come fosse una sorta di accidenti opzionale, casuale e transitorio, una superfetazione anomala o un’escrescenza puramente solo quantitativa da un minimo (accettabile) ad un limite massimo indefinito e invalicabile (prossimo alla schiavitù). Marta Fana non riesce a indicare, come è ovvio, un solo lavoro nell’ambito del modo capitalistico di produzione che non sia sfruttamento, ma non ne deduce che il lavoro esercitato in condizioni di rapporto capitalistico è per definizione sfruttamento, bensì che il lavoro nelle condizioni attuali sempre meno contrattualizzate,…«non è lavoro ma sfruttamento». E siccome non c’è lavoro che non sia subordinato alla produzione di profitto sia in fase di crescita che in fase di crisi, non possiamo fare nessuna ipotesi che il lavoro possa non essere sfruttamento, altrimenti, senza vantaggi, senza prospettive di profitto, nessuno troverebbe incentivo a impiegare lavoro salariato.


Sfruttamento, dunque, sì, ma guai a chiamarlo sempre e comunque con l’eterno nome di schiavitù, o schiavitù salariata come in Marx. Sfruttamento ci sarebbe solo nel lavoro fuori regolamento, non contrattualizzato e occasionale, rispetto ad un lavoro cosiddetto regolare non condannato come quello restante  che da qualche decennio, è variamente assimilato alla schiavitù, ma generosamente tollerato, anche se con avversione, dosando il termine (quasi schiavo, pressoché schiavo, che rasenta la schiavitù, neo-schiavo, schiavo di ritorno…et similia), e limitato di volta in volta a certi settori più chiacchierati come la logistica o a certe forme di lavoro gratuito, rispetto alla regola dello scambio tra lavoro salariato e capitale, che sarebbe l’emblema della norma mercantile per eccellenza dello «scambio» tra (presunti e millantati) equivalenti, nell’etica del (presunto e millantato) libero e alla pari «do ut des».

In realtà nessuno dei zelanti sociologhi avrebbe mai scoperto il bestiale sfruttamento nella logistica se non fossero stati i facchini degli hub a sciorinare, con forti lotte, le condizioni schiavili che ne fanno «carne da macello»[12]. Se c’è lavoro gratuito, minorile, mal pagato e non pagato, nero o grigio, con segregazione e tratta di prostitute e commercio di organi umani e settori o situazioni ricattatorie e fuori norma, la soluzione proposta da coloro che ipocritamente pretendono che i lavoratori salariati non vengano trattati «da schiavi» non è una battaglia storica e strategica per uscire dal capitalismo, dalla sua logica di accumulazione, espropriazione e privatizzazione dei mezzi e delle condizioni di lavoro, bensì quella di ottenere, anche con lotte dure, con la contrattazione, un aggiustamento, margini di contrattazione sempre più erosi dall’immenso esercito di riserva della forza lavoro immigrata e dalle condizioni stesse di quella che chiamano globalizzazione. Si tratta di una condizione ricattatoria in cui non c’è parità di poteri ma stato di bisogno e di necessità tutta dal lato del lavoratore, che oggettivamente non costituisce stato di libertà ma di coercizione, sostanzialmente anche se non giuridicamente identica alla condizione di non libertà dello schiavo non-persona e strumento di lavoro. In tale condizione, e finché tali margini sussistono, può prosperare pertanto, quando non il variegato mondo del caporalato, quando va bene, il mestiere del sindacalista istituzionale e del politicante riformista, consistente nel ruolo sociale del mediatore, nel contrattare e quantificare il «sacrosanto» e accettabile sfruttamento, nella salvaguardia di una condizione di diseguaglianza vista a sua volta come naturale, che non abolisce affatto il potere assoluto sulle condizioni di lavoro come appannaggio di una classe contro un’altra eternamente ricattata dalla necessità di sopravvivenza e sempre costretta a difendersi dall’erosione del tempo di vita contro chi vuole estorcerlo trasformandolo tutto cinicamente in tempo di lavoro e pluslavoro. 

5. Ed ecco Confindustria a suggerire la re-introduzione dell’istituto della schiavitù

La questione oggetto di indagine di questo libro, quella delle differenze e relazioni obnubilate e stravolte tra «schiavitù» e lavoro salariato per così dire «libero», non è di poco conto se ora, nella forma piuttosto provocatoria di quesito, proprio sul sito del Sole 24 ore, compare inopinatamente, come fosse uno scherzo, un testo intitolato: Reintrodurre la schiavitù è o no un’opzione per la società moderna?, vergato (mi si perdoni il bisticcio) da Enrico Verga, «consulente strategico e istituzionale» all’Università Cattolica del Sacro Cuore[13] e corredato da un video molto popolare ed esplicito[14] che indulge ai luoghi comuni, evocativi e mitizzati, sulla schiavitù antica. Costui parte da un dato incontestabile: anche se sulla carta la («vecchia») schiavitù (nel senso giuridico di strumento di lavoro di proprietà del «padrone») è stata bandita, in realtà essa, «con nomi differenti esiste e prolifera ancora in buona parte del mondo». Questa realtà, aggiungo, è confermata e documentata da numerose pubblicazioni e con tanto di statistiche di organismi internazionali, che ne calcolano (variamente) l’ammontare come raffrontabile alla popolazione di uno stato di oltre 50 milioni di abitanti, come segnalo nel mio lavoro.[15]  

E così, anche un trombone mediatico di Confindustria, facendo eco a quanti vanno precisando, come il prof. emerito Nuti, circa la reale condizione dello schiavo, ricorda che: «La schiavitù è spesso vista con un’accezione negativa. Tuttavia si può notare come una larga parte della storia dell’umanità abbia visto regni, imperi e persino nazioni democratiche (con un sistema di elezioni popolari come gli stati americani) utilizzare gli schiavi per differenti mansioni e ruoli. L’abolizione dell’istituto della schiavitù è un fenomeno piuttosto recente. Poco più di due secoli [anche molto meno in alcuni stati dell’Africa e dell’America Latina, nostra nota]. Tuttavia se sulla carta la schiavitù, nella sua accezione più brutale, è stata bandita, così non si può dire nei fatti. Con nomi differenti esiste e prolifera ancora in una buona parte del mondo»[16]. Perciò Verga si domanda: «se non sarebbe opportuno rivalutare la schiavitù (nella sua interezza, non parlo solo di frustate) e considerare l’opportunità economica di reintrodurre tale soluzione contrattuale nell’economia moderna»[17].

«Consideriamo alcuni vantaggi prendendo, ad esempio, come matrice di partenza l’impero romano. Uno schiavo aveva diritto a un alloggio, cure mediche, vitto. Molti schiavi ricevevano forma-zione. Anche oggi i costi della formazione coperti dal padrone sono sicuramente un asset per il dipendente-schiavo»[18]. Nel mio libro documento come i flussi migratori abbassano anche i costi di formazione della forza lavoro che viene così offerta alle aziende a costo zero, pronta da spremere.

Con riferimento alle «partite Iva» e a tutti coloro che lavorano per le imprese senza «un contratto normato e ben strutturato», questa condizione (che qui è solo la punta di un iceberg che, come documento nel libro, riguarda non solo particolari settori e nemmeno solo l’Italia o certe zone di essa, ma tutto il mondo capitalistico) costituisce, secondo Verga, un «potenziale scenario di schiavitù», perché le cosiddette ‘partite Iva’ non hanno giorni di vacanza pagati, non hanno malattie pagate, i costi degli strumenti elettronici (cellulare, computer) sono a loro carico. Non vi sono certezze per il futuro, e il costo/ora tende, a volte, a decrescere (rispetto alla precedente posizione di impiegato assunto). Non si dimentichi inoltre il costo della tassazione, che viene ad aumentare. Sulle spalle del fortunato possessore della partita IVA pesano inoltre un eventuale mutuo o affitto, cibo, costi sanitari etc.»[19], ed è noto che migliaia di esse non sono neppure «partite IVA». Diagnosi perfetta, pertanto, anche se impietosa e cinica.

Infatti, mentre tutti i politici ed (ex) antipolitici ed ex «vaffa…» convertiti al più becero cretinismo parlamentare, in occasione della cuccagna elettorale, si profondevano in promesse demagogiche (ora si dice «populiste» di destra sinistra e centro) a base di chiacchiere vuote su reddito di cittadinanza e simili, il consulente dell’Università Cattolica del Sacro Cuore (che in fatto di salario come «giusta mercede» la sa certamente lunga) propone, mica tanto per provocazione o per una sorta di scherzo di cattivo gusto, ma realisticamente, udite udite !, di formulare «una proposta di legge per re-instaurare l’istituto della schiavitù», dal momento che «fatti due conti veloci, alcuni milioni di neo-schiavi potrebbero essere interessati ad un programma che possa migliorare le loro condizioni». Altro che spauracchio della schiavitù! Ben venga dunque.  

Questo è davvero un parlar chiaro! E non è più nemmeno un paradosso che a denunciare lo sfruttamento “eccessivo”, la violenza e il cinismo aziendali e delle istituzioni nei rapporti di lavoro correnti, spesso esasperati dal crumiraggio fomentato e dell’uso privatistico della forza pubblica nei conflitti di lavoro, intervenga ora, accanto a un certo numero di giovani sociologhi del lavoro, anche il giornale della Confindustria che, mediante un Enrico Verga, mette al corrente di quanto già da tempo si viene da più parti documentando e scrivendo che la «società moderna», l’Italia del 2018, è piena di «neo-schiavi» i quali, benché siano formalmente liberi, stanno «peggio» degli schiavi dell’impero romano. Perché, ci viene ricordato ora da questo tirapiedi della Confindustria, a differenza degli schiavi dell’Impero romano, loro, i neo-schiavi, non hanno alcun diritto garantito ad alloggio, cure mediche, vitto, etc., concludendo col paradossale osanna della panacea di ogni male, la «contrattualizzazione» di tutto, anche della schiavitù: «per molti cittadini (…) sarebbe opportuno diventare schiavi [per contratto]», «Fatti due conti veloci, alcuni milioni di neo-schiavi potrebbero essere interessati ad un programma che possa migliorare le loro condizioni».

E c’è pure la parte allettante: «Bene inteso non si propone certo un regime di frustate, violenza, o pasto per i leoni. Consideriamo alcune società straniere che già oggi danno una serie di benefici: casa pagata, ticket pranzo, copertura sanitaria, servizio di lavanderia etc.. sono tutti benefit che permettono al padrone (pardon, all’azienda) di tenere vicini a se gli impiegati. Di recente un nuovo percorso di esternalizzazione (spesso descritto come benefit) ha preso piede, nelle aziende: si invitano i propri dipendenti a lavorare dal rispettivo domicilio. Indubbiamente vi sono vantaggi per chi ha una famiglia, ci si potrebbe domandare se tali scelte non hanno vantaggi anche per le aziende».

Note
_________________________________

[1] Domenico Mario Nuti, Buon bi-centenario, Karl Marx!...  Una versione inglese di questo scritto è stata pubblicata sul Blog dell’autore il 5/05/2018. Il testo è tratto da un saggio molto più ampio su «Ascesa e Caduta del Socialismo», scaricabile da https://1drv.ms/w/s!AvJLj9Zdu3xmhHlwCfduoiGz790c a cui si rinvia per i riferimenti bibliografici. In Sinistra in Rete In realtà definisco “ambiguo” l’approccio di Nuti perché, dopo aver elogiato Marx per avere a sua volta tessuto il miglior elogio nel noto brano del Manifesto, poi lo critica accogliendo tutte le tradizionali detrazioni del suo pensiero: per aver trascurato quella che lui chiama «l’imprenditorialità e il rischio», nonché «le capacità di aggiustamento automatico dei mercati», perché sarebbe «errato il suo determinismo economico». In realtà Marx ha fatto di più, oltre a demolire la teoria dell’autoregolazione in Adam Smith, quella della divina provvidenza il cosiddetto libero mercato, ha dimostrato il carattere ciclico e catastrofico delle crisi del capitalismo e della caduta tendenziale del saggio di profitto, dell’accumulazione e delle controtendenze. Nuti non manca tuttavia, alla fine della fiera, di ammettere che la previsione di Marx del progressivo immiserimento relativo del proletariato si è invece rivelata corretta.


[3] Platone, Leggi, VI, XIX, in Tutte le opere, a cura di G. Pugliese Carratelli, Sansoni Firenze, 19894 , pp.1273-1274.

[4] Cit da M. T. Cicerone, in Dante Lepore, Schiavitù del terzo millennio, cit. p. 11

[5] Marta Fana, Non è lavoro, è sfruttamento, Laterza, Bari-Roma, 217.

[6] Marta Fana, Ivi, p.45 (corsivo nostro)

[7] Cfr. Carchedi F-Mottura G.-Pugliese E. (a cura di), Il lavoro servile e le nuove schiavitù, F. Angeli, Milano, 2013; Carchedi F.-Quadri V. (a cura di), Schiavitù di ritorno, Maggioli (RSM), 2010.

[8] Kevin Bales, I nuovi schiavi. La merce umana nell’economia globale, Feltrinelli, Milano, 20001998.

[9] Stefano Sutti, managing parter dello studio legale Sutti di Milano, uno tra i cinque studi legali più importanti del panorama italiano commerciale, cit. da E. Verga, vedi nota 11. Il corsivo è nostro.

[10] Marta Fana, op. cit., pp. 106-107.

[11] Ivi, p. 46

[12] Titolo di una loro pubblicazione : Si Cobas, Carne da macello, «Tutte le strade», Red Star Press, Roma, mg. 2017.

[13] Enrico Verga, Reintrodurre la schiavitù è o no un’opzione per la società moderna?, Il Sole 24 Ore, 26 Gennaio 2018


[15] Cfr. questi dati e bibliografia in Dante Lepore, Schiavitù del terzo millennio, cit.

[16] Enrico Verga, loc. cit.

[17] Ivi

[18] Ivi

[19] Ivi

(Dante Lepore per PonSinMor, 4 giugno 2018)

6 commenti:

  1. Toutes les nouveautés de l'univers manga en France.

    RispondiElimina
  2. Hello! Quick question that's entirely off topic. Do you know how to make your site
    mobile friendly? My weblog looks weird when browsing from
    my apple iphone. I'm trying to find a theme or plugin that might be
    able to resolve this problem. If you have any suggestions, please share.
    Cheers!

    RispondiElimina
  3. OnePlus poursuit son rythme de croisière.

    RispondiElimina
  4. La science de la religion est la vie de l'islam.

    RispondiElimina